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Lydia Simoneschi: regina dimenticata dell’Arte del Doppiaggio in Italia

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Questa storia la raccontiamo a partire dalla sua conclusione.

È un giorno di settembre come tanti, a Roma. Siamo nel 1981, l’anno dell’attentato al Papa Giovanni Paolo II da parte di Alì Agca (13 maggio) e della tragedia del pozzo di Vermicino (13 giugno). L’Italia sta cominciando a vincere la sua battaglia contro il terrorismo, anche se questo, messo alle strette, non perde occasione di mostrare la sua faccia più feroce, ad esempio con il rapimento e l’omicidio del fratello di Patrizio Peci, primo “pentito” delle Brigate Rosse. Anche la criminalità organizzata sta affilando le armi, soprattutto in Campania e in Sicilia: gli anni a venire saranno molto difficili, in questo senso.

Ma probabilmente nessuno sta pensando a tutto questo, in mezzo al piccolo corteo che accompagna un feretro al cimitero Flaminio, quello in cui sono state sepolte tante celebrità della politica, della cultura e dello spettacolo (la più recente, un anno e mezzo prima, l’attrice Bice Valori) e ancora tante ne saranno sepolte negli anni successivi (Renato Rascel, Corrado Mantoni, Pietro Mennea, Paolo Panelli, Giorgio Chinaglia, Virna Lisi, Amintore Fanfani, Enrico Berlinguer, solo per citare qualche nome).

Il giorno prima, 5 settembre, se n’è andata una signora di 73 anni che pure apparteneva al mondo dello spettacolo, ma dal 1975 era in pensione e che anche prima non è che fosse chissà quale celebrità: il suo modesto curriculum sulla scena presenta solo una breve carriera teatrale e sei film da comprimaria, l’ultimo dei quali nel 1959. Non è esattamente una di quelle notizie da finire in prima pagina e, infatti, la stampa la ignora completamente: nemmeno i quotidiani locali le dedicheranno un rigo.

Lydia Simoneschi, questo è il nome della donna che solo i familiari accompagnano al cimitero, è stata soprattutto e quasi esclusivamente, una doppiatrice.

Lydia Simoneschi negli anni ’50

Sull’importanza del doppiaggio nella storia del cinema in Italia, si potrebbe scrivere un’enciclopedia. Il cinema è giunto nel nostro Paese in anni nei quali il tasso di analfabetismo era molto elevato. Se si fosse mantenuta la scelta di quasi tutti gli altri Paesi, ossia di mostrare i film stranieri in lingua originale con i sottotitoli, in pochissimi avrebbero potuto leggerli e al cinema non ci sarebbe andato quasi nessuno. Con grande lungimiranza, dall’avvento del sonoro, produttori e distributori si impegnarono a mettere in piedi un’industria culturale che è rimasta quasi un’esclusiva italiana, quella del doppiaggio, e che è sopravvissuta tranquillamente all’alfabetizzazione di massa negli anni del “miracolo economico” grazie alla qualità eccellente del suo lavoro, opera di professionisti capaci, a volte, di scrivere e interpretare dialoghi addirittura migliori di quelli originali.

Tuttavia, almeno fino a qualche anno fa, i doppiatori erano pressoché sconosciuti al grande pubblico. I loro nomi venivano elencati praticamente alla fine dei titoli di coda, quando ormai gli spettatori erano già andati via. Rimanevano dunque dei perfetti sconosciuti. Solo a partire dagli anni ’90, quando è cominciata una notevole produzione di fiction, soap opera e sit-com italiane, che ne hanno impiegati moltissimi come interpreti, i loro nomi hanno cominciato a essere davvero noti a chiunque li avesse già ascoltati tante volte prima, senza riconoscerli.

In Italia lavorano molti bravi doppiatori. Ma nessuno di essi si è mai avvicinato, né probabilmente si avvicinerà mai, al livello di Lydia Simoneschi, che in questa categoria vince per ampio distacco anche rispetto alla sua più nota “rivale”, Tina Lattanzi.

Lydia Simoneschi durante una sessione di doppiaggio nel 1951, assieme ad una giovanissima collega, Maria Pia Di Meo

Lydia Simoneschi nasce a Roma, il 4 aprile del 1908. Respira aria di spettacolo da sempre: il padre, Carlo, fa l’attore e recita in teatro dividendosi con discreto successo tra grandi e piccole compagnie. Spesso i figli degli attori vanno in scena prestissimo, ma non sarà il caso di Lydia, perché la madre Giselda Grossi non è un’artista, è una borghese, e pretende che la figlia riceva una solida educazione come andava di moda a quel tempo per le signorine di buona famiglia: studi regolari, corsi di pianoforte, pittura, ricamo e francese. Ma che Lydia sia nata per fare anche lei l’attrice appare giù evidente quando il padre torna dalla Grande Guerra, cui ha partecipato da ufficiale di complemento. E infatti sarà lui il suo primo maestro e ne curerà in particolare la voce, che già si presenta speciale.

Dalla fine degli anni ’20, Lydia entra nella compagnia di Camillo Pilotto, uno dei maggiori divi della scena del tempo, poi passa a quella delle sorelle Gramatica (Irma, Emma e Anna): stiamo parlando di nomi veramente leggendari tra chi conosce la Storia del teatro italiano.

Con le sorelle Gramatica va in tournée per tutta Europa, toccando Amsterdam, Parigi, Berlino e Budapest. Poi avviene l’episodio che la induce a dare una sterzata alla sua vita.

Dopo uno spettacolo, conosce un giovanissimo ufficiale della Marina Militare (nato nel 1913, ha cinque anni meno di lei): si chiama Franz Lehrmann ma è italiano, nato a Genova da una famiglia di origine tedesca (come del resto anche Vittorio Gassman, che in origine si chiamava Gassmann). Tra i due scocca il colpo di fulmine e, appena possibile, il 19 dicembre 1936, si sposano.

Il matrimonio induce Lydia a lasciare il teatro, perché o va in tournée o segue il marito negli spostamenti di servizio. Tuttavia, non abbandona completamente l’attività artistica, perché da Roma la chiamano spesso per doppiare film stranieri.

Qualcuno, infatti, si è accorto che quell’attrice dall’aspetto parecchio ordinario (tutto sembra, tranne che una diva) ha una voce che non si dimentica, dall’estensione incredibile, solitamente bassa e molto sensuale (ma senza mai cadere nel vezzo del “birignao”, ossia l’eccessiva coloritura data soprattutto da pronuncia nasale ed esagerato allungamento delle vocali finali, tipico degli attori capaci solo di “gigioneggiare”, come si dice in gergo per indicare quelli che, per coprire la sostanziale incapacità, ostentano virtuosismi inutili) ma in grado di raggiungere disinvoltamente anche un registro alto dagli irresistibili effetti caricaturali e comici.

La nascita del figlio Giorgio la allontana per qualche tempo dalle sale di doppiaggio ma una tragica circostanza ve la riporterà a forza. Il 19 giugno 1942, in un’azione di guerra, Franz Lehrmann resta ucciso in combattimento, dopo aver conseguito tre decorazioni al valore militare (due medaglie d’argento e una di bronzo).

Ora che, “accanto, nel letto, le è rimasta la gloria di una medaglia alla memoria” (De Andrè), deve tornare al lavoro, perché nella guerra e negli anni che seguono, nessuno ti regala niente. Non sarà sola, però, perché nell’immediato dopoguerra si risposa con il fratello del marito morto, Luigi Lehrmann, dal quale avrà un secondo figlio, Gianni.

Per sua fortuna, comunque, la stagione che segue è la migliore nella Storia del cinema italiano. Non solo per i film prodotti, ma anche per quelli importati. Finito l’ostracismo ai film (e ai libri) angloamericani, in Italia ne arrivano un numero enorme, tutti da doppiare, e lei, ormai definitivamente tornata a Roma, viene ingaggiata in continuazione.

Lydia Simoneschi e Vittorio De Sica nel film Il moralista di Giorgio Bianchi (1959)

Però non lavora solo nel doppiaggio dei film stranieri. Spesso le tocca anche doppiare attrici italiane, che sono delle bellissime donne ma hanno troppe inflessioni dialettali o poca versatilità interpretativa: Lydia darà voce a nomi come Alida Valli (dodici volte, compresi “Il caso Paradine” e “Il terzo uomo” recitati all’estero), Sophia Loren (undici volte, compresi quasi tutti i film di produzione straniera), Silvana Mangano (nove volte, compresi “Riso amaro” e “Mambo”), Gianna Maria Canale (sette volte, specie nei “peplum”), Yvonne Sanson (cinque volte – in una di queste occasioni, “L’angelo bianco”, la Sanson interpreta due ruoli: in uno ha la voce della sua doppiatrice abituale, Dhia Cristiani, e nell’altro quella della Simoneschi; la Sanson, comunque, è stata doppiata quasi sempre: in una occasione, “Il delitto di Giovanni Episcopo” anche dalla grande attrice Anna Proclemer – Eleonora Rossi Drago (cinque volte), Elsa De Giorgi (cinque volte), Valentina Cortese (quattro volte), Antonella Lualdi (quattro volte), Silvana Pampanini (tre volte), Gina Lollobrigida (due volte) e molte altre (comprese Luisa Ferida, Lea Padovani, Valentina Cortese, Assia Noris, Sandra Milo e Lea Massari) almeno una volta.

Si calcola che Lydia Simoneschi abbia doppiato qualcosa come 5.000 film. Negli ultimi anni prima della pensione, fu anche direttrice del doppiaggio.

L’elenco delle attrici straniere doppiate fa semplicemente impressione: praticamente, chiunque conosca il cinema hollywoodiano nella versione italiana, ha ascoltato la sua voce in tutte le sfumature possibili.

Ha dato la voce a Bette Davis per diciotto volte (ad esempio, in “Eva contro Eva” e in “Angeli con la pistola”), a Susan Hayward per diciotto volte (compreso il grande film del meritatissimo Oscar da protagonista, “Non voglio morire”), a Ingrid Bergman per diciannove volte (compresi “Per chi suona la campana” e “Notorius”), a Jennifer Jones per sedici volte (compresi “Bernadette” e “Duello al sole”), a Barbara Stanwyck per sedici volte (compreso “La fiamma del peccato”), a Maureen O’Hara per diciotto volte (compresi “Notre Dame” e “Lady Godiva”) e a talmente tante altre che l’elenco non finirebbe davvero più.

La sua versatilità era tale che le capitò perfino di doppiare due attrici diverse nello stesso film: ad esempio, Eleonora Rossi Drago e Nanda De Santis in “Un maledetto imbroglio”.

Lydia Simoneschi incontra Märta Torén, una delle tante attrici da lei abitualmente doppiate (1952)

Lydia Simoneschi aveva una voce che non invecchiò di pari passo con l’età, restò sempre la stessa fino all’ultimo. Tuttavia, dato che la sua carriera fu lunghissima, nel tempo cambiarono i gusti del pubblico e, a un certo punto, il suo timbro vocale finì per essere associato a personaggi non più giovani. Ottenne grandi risultati, però, doppiando personaggi dei film d’animazione, specie della Disney, ad esempio Maga Magò ne “La spada nella roccia”, Lady Cocca in “Robin Hood” e Fata Smemorina in “Cenerentola”. In particolare, va ricordato che, come Fata Smemorina, interpretò la versione italiana della canzone “Bibbidi-Bobbidi-Boo”, che praticamente tutti conoscono.

Il declassamento la portò a dare la voce a personaggi diversi dello stesso film, se questo veniva ridoppiato: nella prima versione italiana (1950) del disneyano “I racconti dello zio Tom” doppiò la protagonista Sally (interpretata da Ruth Warrick); quando il film venne riproposto con un nuovo doppiaggio (1973), diede la voce alla nonna (interpretata da Lucile Watson, un’attrice nata nel 1879).

Tuttavia, nelle poche occasioni in cui fu chiamata a doppiare attrici giovani, se la cavò splendidamente come sempre: in “Principessa per una notte”, a sessant’anni, doppiò senza problemi la ventenne Vera Titova. Qualche anno dopo, in “La bella Antonia, prima monica e poi dimonia”, doppiò altrettanto disinvoltamente Luciana Turina, che aveva 38 anni meno di lei.

Altre perle della sua favolosa carriera sono il doppiaggio della cantante Nilla Pizzi nel suo principale ruolo cinematografico (“Ci troviamo in galleria”), quello di un’altra celebre doppiatrice, Elena Zareschi, per una volta in un ruolo da interprete, e la voce narrante del film “Pia dei Tolomei” del 1941.

In conclusione, è difficile immaginare una carriera altrettanto duratura e prestigiosa nell’ambito dello spettacolo, tanto più per una donna dell’epoca. Dopo quasi 40 anni dalla sua scomparsa, possiamo dire che, anche se non fu mai una diva, Lydia Simoneschi merita un posto di primissimo piano nel Pantheon del cinema italiano.


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