Era il 20 luglio 1973 quando milioni di spettatori appresero all’improvviso una notizia sconvolgente: Bruce Lee, il celebre esperto di arti marziali e icona del mondo del cinema, era stato sconfitto dalla più grande rivale dell’uomo, la morte, un avversario troppo forte anche per lui.
Foto di Bruce Lee dal film Fists of Fury
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Il suo decesso fu fin da subito al centro di numerose teorie complottiste, perché l’attore di origini cinesi, poi naturalizzato statunitense, si era spento in circostanze misteriose, che lasciarono una serie d’interrogativi ancora oggi oggetto di dibattito fra giornalisti, medici e ammiratori.
A quasi venti anni di distanza però, la famiglia Lee subì un nuovo e inaspettato lutto: il 31 marzo 1993, suo figlio Brandon, anch’egli attore, morì in un tragico incidente sul set.
Bruce Lee da bambino con i suoi genitori
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Bruce Lee nacque a San Francisco il 27 novembre 1940. Era il penultimo figlio di Lee Hoi-Chuen, un attore e cantante cantonese, e di Grace Ho, discendente di Robert Hotung (1862-1956), uno stimato e potente uomo d’affari di Hong Kong, città dove la famiglia si trasferì quando Bruce aveva pochi mesi. Il giovane Lee aveva un temperamento poco tranquillo, non era certo uno studente modello e si trovava spesso coinvolto in battibecchi con i compagni di classe. La sua famiglia godeva di un certo prestigio sociale, perciò, consapevole che il carattere del figlio potesse nuocere alla propria immagine pubblica, Lee Hoi-Chuen lo mandò negli Stati Uniti. Inizialmente Lee visse a San Francisco da un vecchio amico del padre, poi si trasferì a Seattle. Lì incontrò Linda Emery, la donna con cui convolò a nozze nell’agosto del 1964.
Bruce Lee e la sua famiglia
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La sua carriera cinematografica ebbe inizio quando aveva solo tre mesi: era il neonato del film Golden Gate Girl. Successivamente, sia da bambino sia da adolescente, fu una presenza stabile nelle produzioni delle majors hongkonghesi e comparve in sedici pellicole. In età adulta, si affermò sempre di più sfoggiando le sue abilità nelle arti marziali e, in virtù di ciò, il produttore statunitense William Dozier lo scritturò per la serie televisiva Il calabrone verde e per alcuni episodi di Batman.
Bruce Lee in The Kid – 1950
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Di pari passo con il piccolo schermo, la notorietà di Lee crebbe anche nel mondo del cinema, grazie ai film Il furore della Cina colpisce ancora (1971) e Dalla Cina con furore (1972). Nel 1973 era all’apice del successo, un pilastro del cinema d’azione, e cominciò le riprese del lungometraggio I Tre dell’Operazione Drago che, sfortunatamente, vide la luce solo dopo la sua morte.
Il 10 maggio di quell’anno si trovava negli studi della Golden Harvest per completare una sessione di doppiaggio, quando fu trovato in bagno febbricitante e in preda a delle convulsioni. L’attore fu immediatamente trasportato in ospedale, dove il medico Peter Wu gli salvò la vita somministrandogli del mannitolo. A seguito degli esami clinici era stato riscontrato un edema cerebrale, prontamente curato attraverso farmaci atti a ridurre il gonfiore del cervello. Successivamente, il 20 luglio Lee era a Hong Kong perché in serata avrebbe dovuto incontrare l’attore australiano George Lazenby, per discutere del suo nuovo progetto cinematografico: Game of Death.
Stando al racconto della moglie Linda, Lee vide l’amico e produttore Raymond Chow alle 14 e due ore più tardi si recarono insieme a casa dell’attrice taiwanese Betty Ting Pei. Dopo aver visionato il copione del film tutti e tre insieme, Chow andò via per precederli al ristorante Miramar, per la cena con Lazenby. Mentre era ancora a casa della collega, l’attore avvertì una forte emicrania e la Ting gli offrì una pastiglia di Equagesic, un farmaco composto da aspirina e meprobamato, dopodiché andò a sdraiarsi per riposare e dar modo all’analgesico di fare effetto.
Con l’approssimarsi dell’appuntamento al Miramar, la Ting provò senza successo a svegliare Lee e si rese conto che c’era qualcosa di strano. Tuttavia, non chiamò subito un’ambulanza, anzi, avvisò Chow, che accorse tempestivamente, ed entrambi tentarono di rianimarlo. Alla fine, quando con molta probabilità era ormai troppo tardi, avvisarono un medico di fiducia che, constatando le gravi condizioni di Lee, si affrettò a farlo trasferire in ospedale. L’attore giunse al Queen Elizabeth Hospital intorno alle 22 e fu dichiarato “morto all’arrivo”. Aveva 32 anni.
Stando al resoconto dell’autopsia, si era formato un secondo edema cerebrale e il suo cervello si era gonfiato di circa il 13%, ossia, c’era stato un aumento del peso dai 1400 grammi medi di un uomo adulto a 1500/1575 grammi. Le uniche sostanze rintracciate nel suo corpo furono i componenti dell’Equagesic e quattro milligrammi di marijuana da lui masticati. Il caso Bruce Lee venne affidato al medico forense Donald Teare, che aveva supervisionato oltre mille autopsie. Questi giunse alla conclusione che la vittima fosse stata stroncata da un edema cerebrale causato da una reazione allergica ai composti dell’Equagesic, assunto consenzientemente. Per tale motivo, infatti, venne usata la dicitura death by misadventure (morte per disavventura), differente da death by accident (morte accidentale) poiché nel primo caso il decesso è causato da un rischio che la vittima si assume volontariamente.
La stella di Bruce Lee all’Avenue of Stars, Hong Kong
Immagine di Ahleong via Wikipedia – licenza CC BY-SA 3.0
L’Equagesic non era assolutamente un medicinale pericoloso, perciò in campo medico furono formulate diverse teorie alternative. Peter Wu, il dottore che aveva seguito l’attore durante il primo malore, attribuì la disgrazia alla piccola quantità di cannabis riscontrata dalle analisi, per poi ritrattare la sua posizione con la seguente dichiarazione:
“Il professor Teare era uno scienziato forense raccomandato da Scotland Yard; era stato interpellato come esperto sulla cannabis e non possiamo contraddire la sua testimonianza. Il dosaggio della cannabis non è preciso né prevedibile, ma non ho mai sentito di qualcuno che sia morto solo per averla assunta”.
Dall’autopsia, inoltre, fu evidenziata una possibile disfunzione renale accompagnata dalla presenza di piccole quantità di fluidi e di sangue nei polmoni. Tali dati indussero il giornalista Alex Ben Block a ipotizzare che Lee fosse stato vittima degli effetti collaterali di un particolare colpo di Kung Fu subito durante le varie scene di combattimento sul set.
Alla convention del Comic-Con di San Diego del 1975, Chuck Norris, anch’egli famoso per le sue abilità nelle arti marziali e amico di Lee, affermò che il decesso era attribuibile alla combinazione di due medicinali. Secondo Norris, infatti, nel 1968 Lee aveva iniziato ad assumere un farmaco miorilassante a seguito di un infortunio sul set, che, in linea teorica, venuto a contatto con l’Equagesic, aveva scatenato quella reazione che gli costò la vita.
In una biografia pubblicata nel 2018, invece, lo scrittore Matthew Polly si consultò con un’equipe medica per avvalorare la tesi di un decesso dovuto a sforzi eccessivi e a un colpo di calore, che ai tempi dell’autopsia era un malore clinicamente poco considerato.
Nel 1972, Lee si era sottoposto all’asporto delle ghiandole sudorifere ascellari, poiché il sudore sotto le ascelle era considerato poco fotogenico. Per Polly, quindi, quando Lee si sforzava in allenamenti e combattimenti, il suo corpo era soggetto a degli eccessivi aumenti di temperatura che propiziarono sia il primo sia il secondo edema cerebrale. Sebbene le autorità competenti si fossero espresse sulla causa del decesso, c’era ugualmente un velo di mistero che sembrava ricoprire l’intera vicenda e, se da un lato le teorie sorte in campo medico avevano una spiegazione di fondo, i fans, mossi dal dubbio che qualcuno stesse cercato di insabbiare il caso, iniziarono a far circolare ipotesi complottiste basate su semplici illazioni.
In molti incolparono Betty Ting Pei, forse amante di Lee, di aver cercato volontariamente di ucciderlo; per altri si trattava di un omicidio compiuto con un veleno orientale che non poteva essere rilevato dall’autopsia. Le accuse si estesero anche a molti altri colleghi dell’attore: l’opinione pubblica imputò Raymond Chow, con il quale i rapporti professionali stavano per giungere a termine; il regista Lo Wei, con cui aveva avuto numerosi screzi in pubblico, e il produttore Run Run Shaw, che a causa di un suo rifiuto aveva perso l’opportunità di realizzare un’importante coproduzione internazionale. A chiudere il cerchio, infine, furono sospettati anche vari esponenti del mondo delle arti marziali e i membri della malavita cinese.
Mentre l’opinione pubblica si arrovellava sulla misteriosa dipartita dell’iconico attore, la moglie Linda portò la salma del marito nella sua città natale, a Seattle, dove fu seppellito nel cimitero di Lake View. Tuttavia, vent’anni dopo, accanto alla sua tomba giunsero le spoglie del figlio Brandon, anch’egli protagonista di una morte inaspettata che fece riaffiorare una vecchia teoria caduta nel dimenticatoio: la maledizione della famiglia Lee.
Brandon nacque a Oakland il 1° febbraio 1965 e a soli otto anni dovette affrontare il trauma della scomparsa prematura del padre. Seguendo le sue orme, imparò le arti marziali e debuttò al cinema con piccole parti in film d’azione.
Bruce Lee con il figlio Brandon nel 1966
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Mal sopportando di essere etichettato come “il figlio di Bruce Lee”, nel 1993 accettò di interpretare Eric Draven nel film Il Corvo, dove non era richiesta alcuna scena di Kung Fu e gli consentiva quindi di dar prova delle sue abilità attoriali, distaccandosi dall’ombra del padre.
La pellicola, trasposizione dell’omonimo fumetto di James O’Barr, era diretta da Alex Proyas e la trama verteva su Eric e Shelly, due innamorati in procinto di sposarsi. La notte prima delle nozze l’appartamento della coppia viene preso di mira da quattro malviventi, T-Bird, Shank, Tin e Fanboy, che picchiano e violentano la giovane ragazza. Eric rincasa e assiste inerme all’omicidio della fidanzata, venendo anch’egli ucciso. Un anno dopo, un misterioso corvo si posa sulla tomba del protagonista, che resuscita con poteri sovrannaturali, concessigli per vendicarsi dei suoi carnefici. A pochi giorni dalla fine delle riprese, la produzione aveva deciso di girare per ultime le scene dei flashback, dove Eric, tornato dall’aldilà, si reca nel suo vecchio appartamento e rivive gli attimi in cui lui e Shelly erano stati brutalmente assassinati.
Nel giorno del fatale incidente, era previsto che l’attore Michael Massee, l’interprete di Fanboy, sparasse un semplice colpo a salve, ma qualcosa andò storto.
Brandon Lee
Immagine via Wikipedia – Giusto Uso
Nei ciak precedenti a quello mortale, la pistola utilizzata per le riprese, un revolver Smith & Wesson modello 629. 44 Magnum, doveva essere inquadrata in diversi primi piani. Generalmente, i proiettili sono dotati di un innesco – una piccola capsula inserita nell’estremità posteriore della cartuccia in un’apposita cavità centrale – di un’ogiva, il pezzo ovoidale anteriore che dalla canna arriva fino al bersaglio designato, e di polvere da sparo, il cui contatto con l’innesco fornisce la spinta che fa partire l’ogiva. Inizialmente la troupe scelse di usare proiettili veri, privati della polvere da sparo e dell’innesco, ma non dell’ogiva. Così facendo, le telecamere avrebbero ripreso una pistola carica a tutti gli effetti, pur non essendo letale.
Una fotografia ad alta velocità di un revolver 44 Magnum, che mostra chiaramente il proiettile
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Quando giunse il momento di girare quella che poi si rivelerà l’ultima scena di Brandon Lee, Massee doveva far fuoco puntando all’addome del collega da una distanza di circa quattro metri, perciò i proiettili veri furono sostituiti da quelli a salve, provvisti di polvere da sparo ma non dell’ogiva, in modo tale che si udisse il rumore autentico di uno sparo senza che partisse alcun colpo. Gli addetti a quel cambio, però, non si erano resi conto che uno dei proiettili veri aveva ancora l’innesco e, quando nelle scene precedenti era stato premuto il grilletto, pur senza polvere da sparo, l’ogiva era riuscita a ricevere una piccola spinta fino alla canna, incastrandosi lì all’insaputa di tutti.
Appena il regista diede il via per girare, Massee seguì il copione, sparò all’addome di Lee e, nell’esatto istante in cui fu esploso il colpo a salve, l’ogiva bloccata partì dalla canna e ferì mortalmente la sventurata vittima.
Brandon avrebbe dovuto reagire accasciandosi in avanti, invece cadde all’indietro, ma dapprincipio nessuno si accorse di quanto accaduto. Successivamente, il regista rilasciò la seguente dichiarazione:
“Lo vidi crollare a terra, con un lamento. Il foro del proiettile mi parve perfettamente simulato e il sangue era forse fin troppo abbondante, ma nel complesso la scena era riuscita a meraviglia, e dopo aver gridato “stop” dissi che ne avremmo girata un’altra, più che altro per sicurezza. Visto che non si muoveva, mi avvicinai a lui. Notai che la macchia di sangue continuava ad allargarsi. Mi chinai, toccai con il dito quel liquido. Era tiepido e denso, come sangue… sangue vero. Sul set cadde un silenzio di morte. La prima persona a capire fu Eliza Hutton, la fidanzata di Brandon, che faceva parte del cast come assistente alla produzione. Lanciò un urlo e si precipitò verso Brandon, mentre io mi rendevo conto che respirava debolmente e che le sue condizioni dovevano essere gravi”.
Tra lo stupore di tutti, Brandon giaceva a terra in una pozza di sangue che si allargava a vista d’occhio e fu subito trasportato al New Medical Center di Wilmington dove, dopo un’operazione di circa sei ore, ogni speranza di salvarlo si spense insieme alla sua giovane vita. Alle ore 13 del 31 marzo 1993, a 28 anni, il figlio del grande Bruce Lee fu ufficialmente dichiarato morto… anche lui per una misadventure.
A seguito di quel grave incidente, l’apparato cinematografico statunitense varò immediatamente nuove linee guida a scopo precauzionale: in qualsiasi film, le scene di sparatorie dovevano essere girate puntando le armi verso gli attori con un’angolazione di almeno 30°.
Dopo il funerale, tenutosi con una piccola cerimonia privata, la madre Linda, la sorella Shannon e la fidanzata Eliza decisero unanimemente di fermare le indagini e ritirare la denuncia in cambio di un cospicuo risarcimento. Tale accordo extragiudiziale con la produzione del film, ovviamente, non fu ben visto dalla magistratura, che era pronta a dar via a un processo per omicidio colposo, con l’obiettivo di punire i membri dello staff macchiatisi di una grave negligenza.
Il Corvo fu ugualmente completato con l’aiuto della grafica computerizzata e di una controfigura, e divenne subito un film-cult. Anche Brandon raggiunse la notorietà mondiale, soprattutto fra i giovani, ma il prezzo da pagare era stata la sua vita.
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Il film fu poi distribuito con una dedica sia a Brandon sia a Eliza: esattamente come Eric e Shelly, anche loro erano in procinto di sposarsi, di lì a un paio di settimane.
La lapide sulla tomba di Brandon fu realizzata dallo scultore Kirk McLean e l’epitaffio inciso sopra ricorda, nell’ultima frase, anche la fidanzata: “Per Brandon ed Eliza, sempre uniti nella bellezza del vero amore”.
In un’intervista rilasciata poco prima della sua morte, Brandon aveva citato un passo del romanzo Il tè nel deserto, di Paul Bowles, riportato sulla partecipazione di nozze, e che oggi, nel Lake View Cemetery, è inciso sulla sua tomba:
“Poiché non sappiamo quando moriremo, pensiamo alla vita come un pozzo inesauribile. Eppure, tutto accade solo un certo numero di volte, e in realtà un numero molto piccolo. Quante altre volte ricorderete un certo pomeriggio della vostra infanzia, un pomeriggio che è così profondamente parte del vostro essere che non potete nemmeno concepire la vostra vita senza di esso? Forse quattro o più di cinque volte? Forse nemmeno quello. Quante altre volte guarderete sorgere la luna piena? Forse venti. Eppure, sembra tutto senza limiti”.
Con la morte di Brandon tornarono in auge vecchie teorie di natura esoterica circa una maledizione sulla famiglia Lee. Tali ipotesi superstiziose erano nate all’indomani della scomparsa di Bruce e trovarono riscontro in curiose coincidenze incentrate sulla vita e la carriera di padre e figlio.
I primi ad alimentare le voci sulla presunta maledizione furono i genitori di Bruce che, seguendo i dettami del folklore cinese, gli avevano dato un nome femminile a scopo precauzionale (il nome dell’attore in cantonese è traducibile con “piccola fenice”). Il loro precedente figlio maschio era morto e ciò doveva servire a depistare gli spiriti maligni e a impedirgli di impossessarsi del nuovo discendente.
Il film a cui l’attore stava lavorando, Game of Death, era poi incentrato su un esperto di arti marziali ucciso dalla malavita, trama ricollegabile alla teoria dell’omicidio ordito dalla mafia cinese.
Tale parallelismo tra vita reale e interpretazione cinematografica si verifica, come si è visto, anche nel caso di Brandon, deceduto prima delle nozze, come l’Eric della finzione.
In ultimo, a dar seguito alla leggenda della maledizione della famiglia Lee, vi è il film Dragon: la storia di Bruce Lee, un biopic romanzato del 1993 dove compare un demone, rappresentazione metafisica delle paure interiori di Bruce, che lo perseguita sfidandolo a più riprese. Durante l’ultimo dei loro combattimenti però, l’essere malvagio decide di abbandonare Bruce per spostare le sue attenzioni sul giovane Brandon.
Che sulla testa di entrambi gravasse o meno il peso di una maledizione, alla fine poco importa; oggi, dopo essere scomparsi prematuramente e aver pagato con la vita il prezzo dell’immortalità artistica, riposano insieme, l’uno accanto all’altro.
Le tombe di Bruce e Brandon Lee
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Un padre e un figlio: due uomini per i quali il fato non ha avuto alcuna pietà.